1988. Ultima giornata di campionato. Mentre il Milan si laurea campione d’Italia pareggiando a Como, a Napoli la Sampdoria vince 2-1 e i padroni di casa, campioni uscenti, chiudono la loro stagione al secondo posto. Quella domenica Maradona è in tribuna. Il Napoli aveva perso il primato poche giornate prima dopo essere stato in testa per un anno solare. Scudetto compreso conquistato per la prima volta nell’annata precedente. Il pubblico dell’allora San Paolo grida “Ottavio! Ottavio!”. Un segnale di vicinanza all’allenatore che, secondo un comunicato espresso dalla squadra, viene implicitamente messo sotto accusa per uno scudetto sfumato nelle ultime giornate e che, fino al rush finale, sembrava ormai conquistato.
Sul quel campionato se ne sono dette tante, comprese una serie di teorie su un presunto calcio scommesse o chissà quali progetti politici. La realtà sportiva resta quella più attendibile. A distanza di tempo e con fondata probabilità, quella realtà dice che quel campionato fu perduto per un calendario estremamente impegnativo nel finale di girone caratterizzato da una successione di incontri ad altissimo coefficiente di difficoltà - Juventus, Roma, Verona, Milan, Fiorentina, Sampdoria (allora tutte squadre di alta classifica) - e per un crollo psicofisico dovuto a una panchina corta inspiegabilmente ridotta dopo l’anno dello scudetto conquistato nel 1987. Caffarelli, Volpecina e altri calciatori tatticamente importanti ceduti senza i rinforzi necessari.
Omar Sivori dirà: “In questa storia tutti hanno perso la faccia. Squadra e società. E non è giusto che la colpa venga scaricata solo sull’allenatore”. Il Napoli più bello e vincente della sua storia, dopo un titolo nazionale e un secondo posto, viene aspramente contestato dalla sua tifoseria. Ricordo quella domenica allo stadio come fosse ieri. Il clima era da retrocessione. La squadra fu fischiata pure dopo il gol del momentaneo vantaggio. Parole durissime e cori di aspro dissenso furono il saluto al Napoli che non aveva più retto all’essere campione. Alcuni calciatori protagonisti della grande impresa dell’annata precedente andarono via ricoperti dalla vergogna. Un po’ capri espiatori di qualcosa che si era verificato per cause più grandi di loro.
In quella domenica persino Maradona - lui e Careca furono gli unici a lottare con forza fino alla fine, grazie a grandi gol e grandi prestazioni (ma non furono sufficienti) - per sua espressa e a suo modo coerente posizione, si dichiarò dalla parte della squadra, polemizzando non poco con la società e prendendo le distanze dall’altra posizione allora in concorso per l’attribuzione delle colpe e delle responsabilità, quella di un Ottavio Bianchi precario, ma voluto bene. E quel bene gli servì in qualche maniera a restare e a vincere la Coppa UEFA l’anno successivo.
1991. Ultima giornata di campionato. Il Napoli campione d’Italia uscente vince in casa col Bologna e per un punto non riesce a qualificarsi per la zona UEFA. Pochi mesi prima, in quello storico pomeriggio di fine inverno, il 17 marzo, allo stadio avevo assistito alla partita Napoli-Bari, senza sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei visto Maradona giocare, ascoltando per novanta minuti i peggiori insulti al più grande calciatore della storia che tanto aveva dato, in termini non soltanto sportivi a una Napoli da sempre a digiuno di successi calcistici. Tuttavia quella partita fu vinta dal Napoli grazie a una giocata proprio di Maradona.
Anche quella fu un’annata piena di polemiche e di critiche alla società e alla squadra. Soprattutto a Maradona, che in quella domenica di fine campionato non era nemmeno in tribuna. Il mondo aveva scoperto i suoi giorni bui. Che non avrebbero più avuto fine.
Al triplice fischio della partita col Bologna il pubblico napoletano risparmiò ai suoi calciatori fischi e contestazioni. L’ingrato sfogatoio contro Maradona si sarebbe presto trasformato in un lungo ed espiante coro di nostalgia che a lungo avrebbe percorso i gradoni dello stadio. Dopo la partita col Bologna comparvero diversi striscioni in cui si criticavano gli operati arbitrali, rei di aver danneggiato non poco il Napoli in quell’annata. E in fondo i napoletani avevano ragione. Un sistema più grande aveva fatto pagare a Maradona e al suo Napoli il lungo e glorioso prologo azzurro al mondiale del 1990. Ma quella è un’altra storia.
Adesso, nel maggio del 2024, stavolta avaro di poesia, l’inglorioso saluta l’impresa dell’anno precedente. La Spalletti experience si congeda senza il suo artefice principale. Lui ha avuto l’intuizione di farlo prima. Dal punto più alto. Di quelli rimasti pochi resteranno ancora. Almeno così pare. Un’amara sinfonia degli addii per qualcosa che si è ripetuto a tratti allo stesso modo a tratti in maniera diversa. Chi può risparmi e si risparmi dalla rissa dei torti e delle ragioni. Il tempo, forse, dirà. E nessuno può sapere quanto ne occorrerà. Ammesso che in fondo serva a qualcosa. La passione procede in durata di ebbrezze. Il resto è maturazione di memoria. Tutto sta a farne sopravvivere la felicità di averne fatto sempre parte.