Sembrava che il Napoli di Antonio Conte volesse imparare da se stesso. Nell’era delle evoluzioni dell’intelligenza artificiale una machine learning pareva essersi bene adattata nel gioco contro ideologico di un allenatore che ha dichiarato una ricostruzione contro rivoluzionaria, a dispetto delle pedagogie degli entusiasmi in tono di ebbrezza su cui alcuni suoi predecessori avevano costruito e diffuso, in alcuni casi con successo, le loro dottrine.

Eppure, il "Joshua" di Falken in certi momenti topici s’è dirottato presso forzature che hanno campionato delle fragilità tanto fisiologiche in un processo di rifacimento quanto evitabili e sintomo di limiti di organico dovuti alla parziale congenialità di alcuni giocatori a un sistema di gioco che per certi versi è un autentico stravolgimento rispetto a tre anni fa.

Kvara e Politano agiscono su una lunghezza d’onda esigente e stressante. Non ci sono più i terzini che accompagnano e coprono e non ci sono più i centrocampisti, leggere alla voce Zielinski, che completano le metrature raffinate in cui muovere la palla con velocità e imprevedibilità. Per esempio. Ma il problema non è questo e l’alternativa probabilmente momentanea era stata trovata con efficacia. Su tutto il Napoli.

Un’identità esteticamente discussa e, secondo alcuni, sgradevole, si era vestita di una solidità da primato, tanto consolidato dopo la vittoria a San Siro col Milan, e intelligentemente difeso a Torino con la Juve prima e ancora una volta a Milano con l’Inter poi attraverso due pareggi di astuzia e prudenza tattica. Due pareggi che fanno strategia.

Le due sconfitte con Atalanta e Lazio al Maradona, che ancora una volta si rivela luogo più ostico che rasserenante per i partenopei, hanno visto il Napoli rinnegare se stesso e quel senso strategico delle cose. Il gol vittoria della Lazio ha ricordato molto da vicino il 2-0 di Lookman, con la squadra mentalmente e fisicamente proiettata in avanti senza più badare alla preoccupazione difensiva. 

Il Napoli se avesse pareggiato queste due partite, adesso sarebbe ancora al primo posto. Ovviamente l’ipotesi rimane tale sul piano teorico, ma l’atteggiamento più spavaldo e sbilanciato visto in queste due sconfitte ha condotto ai due risultati negativi anche a causa di una sconfessione azzardata quanto superflua. Conte sa bene che la manovra offensiva della sua squadra non è ancora pari a quella difensiva. Allora perché tentare a tutti i costi di chiederle di mettere a rischio anche l’arma che aveva tenuto la squadra in testa alla classifica per oltre due mesi?

L’allenatore del Napoli insiste sui fondamentali, forse anche scontati, che portano il nome di compattezza e concentrazione, ma se ha scelto di non raffinare congegni più elaborati, allora perché spingersi oltre il confine di quel linguaggio che la squadra si è data e da cui la squadra stessa sembrava avere trovato il metodo per non farsi più battere? 

La pazienza e l’essenza pragmatica e cinica del risultato sono le regole della guida di Antonio Conte. A Napoli in molti dicono che non si era abituati a qualcosa del genere e che bisognerebbe ritornare a quel calcio di qualità che al momento è cartina di persuasione e di invidia nel gioco degli altri. Ma il Napoli la sua forma di persuasione l’aveva trovata. Strategica e coraggiosamente irritante. Che funzionava.  

Nelle due sconfitte casalinghe che hanno determinato una classifica che adesso vede gli azzurri senza più primato e dentro la mischia per un posto in Champions è come se qualcosa avesse tentato squadra e allenatore. Qualcosa che ha distolto prima di tutto loro dal senso di pazienza e di imperturbabilità che si erano dati. Forse si dovrebbe cercare di recuperare prima di tutto quello. A dispetto di. Come sembrava essere nato un nuovo Napoli.