Dopo una serata sportivamente parlando "tragica" come quella di ieri, in tanti hanno rilanciato il "mantra" dei troppi stranieri in Serie A e nei settori giovanili come causa principale se non (per i più estremisti) unica della mancata partecipazione dell'Italia ai Mondiali di calcio di Russia 2018 a sessant'anni di distanza dall'altra eliminazione nelle fasi di qualificazione avvenuta nel 1958.
A prima vista i puri dati statistici sembrerebbero dar ragione a chi la pensa così. E' infatti innegabile che il numero di stranieri schierati in Serie A sia aumentato in maniera notevole dal 2006, anno del nostro quarto trionfo mondiale e nel quale la percentuale di "non-italiani" nella massima serie era del 35% contro il 57,9% segnalato da una ricerca CIES del febbraio 2016, ma è davvero solo quello il problema o è una risposta semplicistica a un problema di fondo più complesso che per certi versi rischia anche di confondere le cause con gli effetti?
Per rispondere a queste domande procediamo con ordine e partiamo dal dato precedente, che possiamo ritenere la punta di un immaginario iceberg alla deriva che ben simboleggia l'odierno calcio italiano, provando a scavare nel ghiaccio fino a ricercare le basi sommerse sulle quali questo "sciagurato" iceberg si è sviluppato. L'indagine CIES del 2016 poneva l'Italia al terzo posto nella graduatoria delle nazioni che utilizzano nei loro massimi campionati più stranieri, dietro alle sole Inghilterra (66,4%) e Belgio (59,1%). Già la presenza davanti a noi di due nazioni che nelle ultime qualificazioni europee hanno dominato i propri gironi, rispettivamente con 28 e 26 punti sui 30 disponibili, fa emergere i primi dubbi sulla solidità della "teoria degli stranieri", tanto più che i belgi hanno proprio in questo periodo una delle migliori nazionali della loro storia calcistica. Impressione che viene ulteriormente confermata dal 55,6% del Portogallo, vincitore degli ultimi europei. La Germania campione del mondo continua a sfornare talenti e a presentare una selezione altamente competitiva nonostante l'"invasione straniera" abbia colpito anche la Bundesliga con il 50,1% di "non-tedeschi" in campo. Andando a cercare le nazioni più virtuose, ne troviamo tre che sui settori giovanili puntano a livello federale sicuramente più di noi, ovvero la Spagna (41,6%), l'Olanda (35,5%) e la Francia (33,9%), però anche qui siamo ben lontani dal dimostrare l'esattezza della teoria visto che gli "Orange" attraversano un periodo di crisi se possibile ancor più profondo del nostro nonostante l'estrema attenzione dedicata ai giovani talenti locali.
Se si prova a chiedere ai direttori sportivi della Serie A come mai le squadre mostrano una tendenza quasi generalizzata a importare calciatori dall'estero piuttosto che puntare su giovani talenti italiani, le risposte non differiscono da quanto detto questa estate dal direttore sportivo della Spal Vagnati, che ha giustificato la scelta di rinunciare all'idea di una squadra totalmente autarchica come da iniziale desiderio della dirigenza per due motivi: il maggiore costo dei calciatori italiani rispetto agli stranieri e l'esiguo numero di quelli che davvero possono fare la differenza, non offrendo le serie minori giocatori dalle qualità adatta per affrontare un campionato di Serie A. Due motivi che sono in realtà strettamente collegati, perché se da una parte è vero che le richieste economiche di procuratori, calciatori e club italiani sono mediamente più alte rispetto a quelle relative a prospetti esteri dello stesso livello, è vero pure che questa differenza di prezzo si crea anche a causa dal limitato numero di giovani calciatori italiani ritenuti in grado di essere davvero un valore aggiunto per una squadra di Serie A, scenario che ne fa lievitare il costo del cartellino per la legge che regola domanda e offerta. Anche in questo caso la prima annotazione che verrebbe da fare è "Beh per forza... le giovanili sono piene di stranieri". E questo è senz'altro vero, ma una volta osservato il fenomeno è il caso di andare ancora più a fondo è chiedersi ancora una volta il perché.
Il mondo delle giovanili infatti è diverso da quello dei "grandi". I soldi che girano sono notevolmente inferiori e, anzi, non di rado andare a scovare talenti Under 20 all'estero comporta spese uguali se non superiori a quelle che dovrebbero essere sostenute per puntare sui pari età italiani. Oltretutto la scelta di non puntare sui calciatori italiani (giovani e meno giovani) non è una prerogativa dei nostri club. Prendendo in esame un'altra ricerca del CIES pubblicata nel maggio di quest'anno, infatti, si scopre che il Brasile esporta 1202 giocatori, la Francia 781, l'Argentina 753, l'Inghilterra 451, la Spagna 362, la Germania 335 e l'Italia appena 150, un terzo degli inglesi che pure in Premier League fanno giocare un numero inferiore di talenti locali rispetto al nostro.
Non sarà quindi che oltreché per valutazioni prettamente economiche i club italiani hanno ridotto il numero di giocatori nelle proprie rose di prima squadra e giovanili perché nel nostro Paese la qualità dei calciatori sta drammaticamente scendendo rispetto al passato? Quante volte abbiamo sentito dire "dall'estero arrivano giocatori più pronti nonostante la giovane età" o "gli stranieri quando arrivano in Italia devono subire un periodo di adattamento perché qui gli allenamenti sono completamente diversi" oppure ancora "nessun paese ha allenatori preparati così bene tatticamente come l'Italia"... sono ormai frasi fatte che gli addetti ai lavori ripetono e danno per scontate, ma in pochi si chiedono "E se fosse in queste frasi la chiave del declino del calcio italiano?".
Prendiamo la prima frase. "Dall'estero arrivano giocatori più pronti nonostante la giovane età". Come mai? Evidentemente il loro approccio al calcio da bambini e adolescenti è diverso dal nostro e - probabilmente - migliore. Da una parte la causa va trovata nel progressivo allontanamento dalle attività sportive delle giovani generazioni italiane, realtà che comporta un evidente calo di successi dei nostri atleti in quasi tutte le competizioni negli ultimi vent'anni. Basti vedere i medaglieri delle Olimpiadi o le crisi di risultati di molti sport di squadra, che sul finire del secolo scorso avevano invece raggiunto l'apice della nostra competitività a livello di compagini nazionali. Intendiamoci, sono decenni che nel nostro Paese a livello strutturale si fa poco o niente per educare allo sport i giovani, dalle scarse ore di ginnastica a scuola in giù, ma fino all'avvento dell'Era di Internet, degli Smartphone e dei mille canali tv che offrono intrattenimento a tutte le ore, quello che non offriva lo Stato i ragazzi se lo creavano da soli e - nel caso del calcio - praticamente gratis. Bastavano un pallone, uno spazio abbastanza grande da sembrare un campo di gioco (di qualsiasi superficie) e quattro zaini o quattro felpe a far da pali per giocare per ore ogni giorno (o quasi) senza che ci fossero telefonini o serie tv o videogames sempre più realistici e attraenti a distrarre più di tanto (intendiamoci, i videogames c'erano già negli anni ottanta, ma insomma... fra i giochi del Commodore 64 e quelli moderni c'è una leggera differenza e credo non ci sia bisogno di spiegarla in questa sede...). Chi, come me, è nato alla fine degli anni settanta, ma credo anche i nati negli anni ottanta, si ricorderà abbastanza bene quanto giocare a pallone senza limiti di tempo per la gran parte di noi fosse il modo migliore per passare il pomeriggio. Con il passare degli anni quello che era il passatempo preferito della maggioranza dei giovani italiani (in questo accomunati ai brasiliani, non a caso due delle nazioni più vincenti nel calcio) è diventato esclusiva di una élite sempre più ristretta. In questo modo la "massa" di potenziali calciatori in erba che hanno le potenzialità per diventare futuri campioni e che, liberi da qualsiasi dettame tattico imposto da un qualsivoglia allenatore, danno libero sfogo alla loro creatività con il pallone fra i piedi si riduce ogni anno di più. Questa nuova Era ovviamente non è un fenomeno solo italiano, ma ci sono paesi che a livello di risultati agonistici ne risentono meno perché hanno uno Stato e una cultura sportiva che riesce a ottimizzare i tempi da dedicare allo sport (come la Germania), altri paesi nei quali ancora oggi ci sono fette della popolazione che accedono in misura limitata ad altri tipi di svago e dove il calcio nelle strade o nei campetti è ancora un modo abituale per far crescere i bambini (il Sudamerica ma anche le nazioni che spesso portano in nazionale calciatori provenienti dagli strati meno abbienti della popolazione e che nella sfortuna hanno la fortuna di passare molto tempo con il pallone fra i piedi, come capita per esempio con i naturalizzati francesi) e altri come noi che, popolati da giovani abituati da decenni a "improvvisarsi" calciatori, mano a mano che viene perduta la magia del "fai da te" non riescono a sopperire in altri modi.
Siamo così arrivati all'ultimo "perché?", al quale darò una risposta che a mio parere rappresenta la base di questo iceberg che ogni anno aumenta di grandezza e diventa sempre più difficile da scalfire. Perché non riusciamo a sopperire al "calo di vocazione" dei giovani verso il calcio che incide sulla possibilità di creare i fuoriclasse del terzo millennio? Temo che la risposta vada ricercata nelle altre due "frasi fatte" riportate in precedenza: "gli stranieri quando arrivano in Italia devono subire un periodo di adattamento perché qui gli allenamenti sono completamente diversi" e "nessun paese ha allenatori preparati così bene tatticamente come l'Italia". Queste due frasi, che sono spesso pronunciate come se fossero il fiore all'occhiello del movimento, possono essere viste in ottica positiva se si pensa al numero di nostri allenatori ammirati ovunque per la capacità di gestire i grandi club, ma hanno un rovescio della medaglia a mio avviso "drammatico" in chiave Nazionale e crescita dei giovani talenti italiani.
In Italia la gran parte di coloro che si approcciano al mestiere di allenatore lo fa confrontandosi con le figure di colleghi connazionali che vanno per la maggiore, quasi tutti maestri della tattica e amanti di un preciso modo di giocare. Va da sé che anche gli allenatori delle squadre giovanili, per mettersi in mostra nella speranza di entrare nel giro dei club o semplicemente perché cresciuti con questa mentalità, privilegino nel loro lavoro con i ragazzi l'aspetto fisico e tattico costruendo nella migliore delle ipotesi squadre capaci di correre e anche di giocare un buon calcio collettivo ma che risultano essere totalmente inutili per la crescita dei giovani talenti. Giovani talenti che si ritrovano alla soglia dei vent'anni perfetti conoscitori di un solo modulo di gioco ma incapaci di marcare un uomo (perché ormai giocano tutti a zona) o di fare un dribbling (spesso mal visto dai mister che prediligono il gioco di squadra rispetto al talento dei singoli). Il "giocare di squadra" fin dalla giovane età impedisce inoltre di coltivare la capacità non solo di adattarsi a diversi moduli ma anche di improvvisare una giocata, particolare che spesso può fare la differenza in una partita di calcio. Il risultato è che i calciatori italiani (a differenza dei pari età stranieri più abituati all'improvvisazione negli anni precedenti al loro approdo in Italia) arrivano nelle prime squadre con carenze non solo tecniche ma anche psicologiche, due aspetti che andrebbero coltivati nei ragazzi più del puro aspetto tattico. Si operasse in questo modo, infatti, gli allenatori di prima squadra avrebbero fra le mani calciatori italiani migliori tecnicamente, più capaci di affrontare gli imprevisti e quindi adattabili molto più facilmente a qualsiasi credo tattico del mister per il quale si troverebbero a giocare. Credo tattico che a quel punto (ma solo a quel punto) può diventare un valore aggiunto perlomeno per le squadre di club.
Sull'utilità di maestri della tattica in Nazionale ci sarebbe poi da discutere... lascia pensare a questo proposito che solo in Italia si ritengano necessari stage o si sottolinei l'importanza dei venti giorni di allenamenti quotidiani per creare una squadra prima dei grandi eventi, quando nelle altre nazioni non si fanno questi problemi e spesso si gioca bene e si ottengono risultati migliori senza troppe elucubrazioni tattiche ma limitandosi a cucire le squadra attorno alle capacità dei singoli. In questo il lavoro di Conte rappresenta l'anomalia nel sistema, ma basta rileggere le "parole d'amore" dedicate a lui e ai suoi metodi dai giocatori che lo hanno avuto come allenatore in Nazionale per capire quanto il suo approccio al ruolo di CT dell'Italia sia difficilmente ripetibile dai colleghi, fermo restando che una delle sue linee guida è "istruire il calciatore in modo che sappia sempre cosa fare in ogni momento" ed è quindi una semplice ottimizzazione a livelli di eccellenza di una situazione che fotografa proprio i limiti tecnici e psicologici dei giocatori a disposizione, e cerca per questo la soluzione migliore per superare il problema senza negarne l'esistenza e anzi rendendola evidente.
In conclusione, credo che prima di pensare a diminuire gli stranieri (impresa oltretutto non facile viste le attuali regole che impediscono la chiusura delle frontiere) o di lamentarsi di quanto siano pochi i giovani italiani a giocare in Serie A senza chiedersi il perché, bisognerebbe intervenire alla radice a livello federale distinguendo in maniera netta la figura dell'allenatore di squadra giovanile da quella di Mister di squadra di club e ancora da quella di CT della Nazionale, tre mestieri che per essere ottimizzati richiedono approcci totalmente diversi e per i quali i futuri allenatori hanno bisogno di tre preparazioni e visioni del calcio e del loro lavoro distinte: indirizzata alla crescita tecnica e mentale dei giovani per i primi, alla tattica e alla ricerca del risultato per i secondi e alla gestione e al personale adattamento delle proprie idee tattiche a quello che offre il gruppo di giocatori a disposizione per i terzi. Senza fare questo passo, qualsiasi intervento possibile sui vertici federali, sul tipo di allenatore scelto per la Nazionale, sul futuro delle squadre Primavera o sull'utilizzo degli italiani in prima squadra o nelle giovanili rischia di essere una semplice manovra politica al fine di presentarsi come i "salvatori del calcio italiano" che però a livello pratico non aiuterà a creare i campioni del futuro e a riportare l'Italia agli altissimi livelli ai quali siamo stati abituati nel passato.