Egregio Signor Khvicha,
fu nell’ottobre del 2022 che qui le fu scritto che era stato bello vederla provenire da un luogo lontano dai riflettori per sperare che ci fosse ancora qualcuno in grado di restituire la potenza della semplicità. Fu allora che le fu scritto che, dopo appena dopo pochi mesi dal suo arrivo a Napoli, la paura di perderla era già grande e che molti temevano che sarebbe stato presto risucchiato dai successi contrattuali prima ancora che da quelli sul campo. Fu allora che le fu scritto che stavano già convivendo la gioia di averla e la paura di smarrirla. E che aveva fatto capolino una nuova forma di felicità mista al timore di innamorarsi. Un moderno Amleto si era insinuato in un sentimento collettivo che ha dovuto nuovamente fare i conti con l’enigma di quella sensazione piena e inafferrabile che si comprende solo quando non c’è più. E il punto è proprio questo.
Perché, vede, la questione non sta nella sua scelta, perché è giusto che ognuno risponda a se stesso e alle proprie volontà. E lei ha giustamente compiuto la sua scelta. Il punto, però, resta un altro. Non riguarda lei direttamente. Lei ne è stato tramite, ennesimo e indiretto. Stavolta con delle differenze di fondo per le quali qualcosa non passa inosservata.
Lei, merito altissimo, è stato tra gli artefici di un dono che tante persone aspettavano da tempo. Ci è voluta una vita per poterlo nuovamente rivivere. Un tempo lunghissimo che ha portato con sé qualcosa che purtroppo è servito anche ad altro. A capire altro. La felicità del terzo scudetto ha consegnato a quelle persone un documento gelido e lucidissimo. Sopra c’era scritto che qualcosa era cambiato, che quello che dopo un terzo di secolo ci si aspettava in realtà non c’era più. Sì, pochi hanno avuto il coraggio di ammetterlo, ma in fondo è andata così. Quella felicità per quel momento desiderato a lungo ha rivelato che quel terzo di secolo di attese e di speranze è servito a cambiare uno stato di cose che ha fatto irruzione ovunque, pure laddove lei non sa e mai saprà chi e cosa ha saputo aspettare.
La notte del 4 maggio 2023 è calata una legione di ricordi lontani che non aspettavano altro di dire a tutti che uno spazio sconfinato di segni, valori, memorie era quello che più di tutto aveva avuto la pazienza di starsene a contemplare quei tentativi di rileggere tutto, di rielaborarlo, reinventandosi in un mondo ritenuto nuovo, ma probabilmente soltanto disperatamente orfano di quello apparentemente lasciato alle spalle. Lei non potrà mai saperlo, ma il suo più grande merito è stato quello di far sì che fosse il passato, una volta tanto, a trionfare su questa smania di futuro che oggi regola ogni cosa, fin dentro le viscere dei sentimenti.
Ed è stato giusto che lei si sia allontanato in questo modo. Un congedo in nome di un contratto dissimulando ragioni rinchiuse dentro i soliti “poi un giorno vi racconterò”. Ma non c’è nulla da dirsi. È contato viversi come è stato. C’è chi si lascia dentro e chi ha bisogno di mentire. A ciascuno intimamente la confessione di aver aderito all’una o all’altra scelta. Perché lei forse saprà che il saluto nei sentimenti fa quasi tutta la qualità del ricordo. È stato giusto salutarsi così. Con la consapevolezza di essersi scoperti ognuno verso la propria destinazione. Facendo presto. Forse pure un po’ tardi. Che poi perché dire di essersi lasciati? Il tifoso, l’appassionato, chi non è dentro certe dinamiche non lascia. Non decide. L’appassionato è il terzo comodo di storie d’amore fittizie e utilitariste per cui gli innamorati veri sono altrove. Senza fare e disfare.
Per quelli conteranno quei bei momenti. Tutto il resto rischia di diventare materia vecchia, in un grande obsoleto di massa in cui è facile confondere resistenza e appassimento. Perché è giusto che lei sappia che quello che resiste non dimora presso murales, statue o altre mete turistiche, ma vive nel luogo inaccessibile di tutti quelli che con struggente amarezza durante quella notte si sono fermati per un istante e hanno capito che qualcosa era cambiato. E poco a poco si sono messi all’opera non soltanto per farsene una ragione, ma per restituirselo davvero autentico quel sentimento. Senza scambiarlo per appassimento. E la prego di crederlo, è una fatica dura.
Egregio Signor Khvicha, la sua storia a Napoli è stata il lampo prima della tempesta. E il dopo è tutta una cosa seria. Addosso a chi rimane. Ed è giusto così. Lei, che mai leggerà questa lettera, non sa che quando in quell’ottobre del 2022 le furono riservate parole che in fondo non erano soltanto per lei, le furono anche dedicati i versi di un poeta suo compatriota. Adesso ancora più emblematici. Dicevano “Rimango solo... le montagne, le ombre. Il sonno della mia terra accarezza. O Dio! O Dio! Quando ci sveglieremo e risorgeremo alla felicità?”. Ma attenzione, i versi dei poeti sono una bussola in cui l’ago cambia direzione vorticosamente. Adieu