Che sia il caso di chiedersi se il calcio nazionale non sia più tra i migliori del mondo? Anzi, ormai molto lontano anche da qualità di medio livello? Un minuto dopo il mondiale conquistato nel 2006 è iniziata una discesa che nella massima competizione planetaria ha detto di due eliminazioni nei giorni eliminatori (nel 2010 l’Italia è finita sotto la Nuova Zelanda) e due mancate qualificazioni al campionato del mondo. 

Nella storia della Coppa del Mondo degli ultimi vent’anni, se l’Italia dovesse guadagnarsi l’accesso alla prossima edizione, la nazionale azzurra avrà vinto una sola partita. In un ventennio di eliminazioni nei gironi e di mancate partecipazioni (una avvenuta per mano della Macedonia del Nord) l’Italia ha vinto una sola partita. Una partita ai mondiali in vent’anni. E l’ultimo Pallone d’Oro italiano proviene dal settore giovanile del Napoli dell’era Ferlaino

Forse saranno in tanti a non volere sentirsi dire che la vittoria dell’Europeo ha rappresentato un caso storico assimilabile a quello di Danimarca e Grecia. Perché per anni, prima di arrivare a tutto questo, gli italiani hanno attribuito la romantica casualità degli eventi straordinari a quei successi, con tanta simpatia, ma senza riconoscere la dimensione alta e prestigiosa a quelle formazioni. Forse anche giustamente, visto l’intorno modesto di quelle squadre. E allora, considerando quanto citato, è giusto che la stessa valutazione valga anche per la nazionale italiana.

Mai nella storia del calcio l’Italia aveva fatto registrare un periodo così lungo di insuccessi e, soprattutto, di vuoto tecnico. Fino al 2006 non erano mancati i tonfi clamorosi, finiti nell’immaginario storico del mai più, ma tutto si era sempre verificato nei margini oggettivi di una scuola calcistica innegabilmente tra le migliori al mondo. Principalmente per efficacia e senso della sostanza del futbol. Quello che oggi è l’elemento che più di tutti latita in un disagio che sta diventando una dialettica dell’imbarazzo. 

Solo la deontologia dei professionisti al servizio della televisione pubblica ha impedito ai cronisti e ai commentatori di Svizzera-Italia di esprimere le parole adatte, col sentimento adatto, davanti a una prestazione che è andata oltre i confini di quello che rientra nello spirito critico di chi assiste a una competizione sportiva. L’imbarazzo era facilmente percepibile. 

Forse il problema ricade su una classe istituzionale che non vuole disfarsi di sé, che ha sempre teso il suo sostegno verso il reazionariato di chi non vuole vivere il calcio come un gioco, ma solo come luogo di movimento di potere.

I casi di Roberto Baggio (“Non mi hanno lasciato lavorare”) o di altre figure che avrebbero potuto assicurare diversi entusiasmi a un ambiente che è sempre più votato alla cosmesi dello sfoggio di appartenenza, compongono l'emblema di un vizio antico.

La soluzione non poteva di certo essere quella di affidarsi a un allenatore superficialmente ritenuto l’artefice di miracoli altrove, ma che alla guida della nazionale ha portato scelte talvolta al limite dell’inspiegabile, nelle convocazioni e nelle formazioni. 

C’è da chiedersi se il calcio nazionale non sia una proiezione, e non potrebbe essere la sola, di uno stato d’intendimento delle cose che crede di essere quello che invece potrebbe non essere. Solo perché il passato autorizzerebbe a farlo. Ma questa pare un’epoca poco disposta alla dilatazione del tempo e molto incline a una disponibilità più fugace e frammentaria della memoria. Per “sopravvivervi”, forse, occorre un senso dell’umiltà ancora più forte. Con delle idee più forti e più precise. Sempre che le idee precise non siano queste.