Dal 1994 un declino gestionale e finanziario accompagnò la Napoli del pallone a una dolorosa rarefazione fino ai libri contabili e neri del 2004. Fino ad Aurelio De Laurentiis. Il patron azzurro compie i suoi vent’anni alla guida della società che le vicende politiche ed economiche hanno voluto che fosse lui il cambio di guardia decisivo per riportare il Napoli ad alti livelli.

I vent’anni di De Laurentiis hanno consentito a una tifoseria afflitta da un trauma incalcolabile di ritrovarsi nel calcio delle grandi, di vincere nuovamente qualcosa di grande e di potersi ancora una volta permettere di sfoggiarsi pretenziosa. Come era accaduto molti anni prima. Perché, al di là dei tecnicismi di bilancio tanto cari a una parte degli addetti ai lavori, più inclini alla freddezza numerica che al cuore, il merito più grande di Aurelio De Laurentiis è stato questo. Il merito più ignorato, tante volte diluito in mezzo a polemiche ora giustificabili adesso pretestuose.

Il presidente della rifondazione ha consentito a una tifoseria di poter nuovamente tornare a pretendere, a esigere, nella regolamentazione che lui stesso ha imposto attraverso i suoi azzardi e i suoi calmierati nessuno sa quanto costantemente contemplati con valutazioni razionali o spinte da momenti di istintiva e incomprensibile impulsività.

Perché il verbo di De Laurentiis, spesso votato a una comunicazione in contraddizione tra ragione della sostanza e discutibilità della forma, ha rifondato un tributo alla tifoseria attraverso una pedagogia che ha tagliato molti ponti con un passato dai segni probabilmente dolcemente incompatibili con quelli di un’epoca così vicina e così lontana da quella precedente alla fase transitoria e drammatica che ha scavato un solco di smarrimento in molti tifosi.

De Laurentiis ha respinto a lungo i linguaggi e i simboli della realtà di oltre settant’anni di Napoli e del Napoli. La rivoluzione della nuova proprietà ha raffreddato un legame che gli stessi tifosi si sono visti costretti a rielaborare nella condotta divisiva di un presidente a volte inquietato dalla possibilità che i simboli di quel passato potessero fare ritorno. Forse prima di tutto perché lui stesso non ne facesse realmente parte.

Aurelio De Laurentiis ha imposto il valore del calcolo e dell’equilibrio a un luogo che detta altri criteri di calcolo e di equilibrio, affrontando lui stesso questa difficoltà e scovando soluzioni, a volte anche provocando dissoluzioni, in un progressivo isolamento dei protagonisti sotto la sua bandiera.

Eppure proprio lo scudetto gli ha restituito una deriva ricolma di quei segni antichi e di tanto in tanto da lui stesso scongiurati, per un’esorcizzazione che da una parte si è rivelata una forma di ostinazione, ma dall’altra ha consentito al Napoli di resistere anche ai momenti più difficili. Perché, e proprio nella stagione da poco iniziata si è rivelato questo aspetto, pochi club nelle condizioni del Napoli avrebbero trovato la forza di riprendersi dopo il paradossale capovolgimento di un biennio diviso tra la felicità e una deprimente delusione.

Il suo metodo, affidato a un dispositivo in costante discutibilità empatica, ha fatto sì che quella razionalità potesse sempre sopperire alle mancanze di una passionalità affannosa e scomposta in certi frangenti. Nella consapevolezza che De Laurentiis sia stato importante per i napoletani tanto quanto lo sono stati i napoletani per lui. In difetto di distanza. A volte troppa. Il cosiddetto calcio moderno attenta prima di tutto a questa molte volte trascurata relazione. De Laurentiis seppe coglierla molto intelligentemente vent’anni fa.