Qualcosa era andato perduto e sembrava difficile da ritrovare. Il mandato numero uno di Antonio Conte era stato questo. Resta questo. Prima di tutto contro un’onda di diffidenze che, nonostante molti segnali, non è ancora passata. 

Non solo il mercato, non solo la restituzione di una solidità tattica e di idee precise. C’era da ridarsi agli entusiasmi. E la cosa più difficile, e continuerà ancora a lungo, era e sarà farlo a sfavore di vento. Perché a Napoli c’è da convincere chi non può smettere di intravedere, a torto o a ragione, i trascorsi rabbiosi e pragmatici di un allenatore che per anni è stato considerato in antitesi con i principi calcistici di una piazza che col tempo si è data un codice rivolto prima di tutto alla tensione della vittoria, prima ancora della possibilità concreta di raggiungerla.

Meccanismo complicato da comprendere per uno formatosi nella Juventus, l’avversario per eccellenza prima di tutto di una cultura sportiva, quella partenopea, e poi di una tifoseria. Il problema era questo e resterà questo, almeno per quella fazione ancora da convincere, al di là del bel gioco e dei canoni rassicuranti di un’estetica del calcio votata a un senso dello spettacolo consolatorio al momento della sconfitta.

Tranne Spalletti, bisogna risalire a tempi lontani. E questo Napoli non può averlo certo dimenticata. Ed è proprio lì che Antonio Conte sta cercando di insinuarsi nell’intenzione di ricostruire una squadra di calcio in pienezza di quella complicata coniugazione tra solidità e intelligenza tattica, tecnica e pragmatismo. Il Napoli tra il 1988 e il 1990 fu questo. In una rappresentazione molto probabilmente destinata a rimanere irraggiungibile. A restare raggiungibile, invece, piò essere il criterio, l’idea e la sua conseguente applicazione.

Una possibilità ambiziosa, soltanto a pensarla. Eppure l’educazione polemica e insofferente, tesa e rassicurante, provocatoria e in apparente emergenza, assume i tratti di questa intenzione. I giocatori nuovi che il Napoli ha ingaggiato, le prime manifestazioni tattiche e soprattutto l’anima nuova e mai afflitta, sia pur in una ancora evidente stato confusionale, della squadra si assumono la responsabilità di questa idea.

Un Napoli in grado di ricostituirsi sull’orlo e sul limite, sulla tensione come chiave di rappresentazione. E, paradossalmente, questa è anche l’unica formula in linea con la maniera di fare di un De Laurentiis che non disdegna le linee tese come linee di conduzione. Un particolare stato di guida delle cose che quest’anno, nonostante l’affare Osimhen, non ha vietato alla società di compiere uno sforzo pari a quell’idea. Elogiabile quanto gli sforzi economici d’altri tempi.

L’istante dopo il gol di Anguissa col Parma è la testimonianza di una possibilità che adesso il Napoli può non soltanto avere chiara, descrivibile, ma sembra in condizione di praticarla. Per farlo occorrerà raggiungere le vittorie probabilmente più volte in quell’apparente sofferenza che nella serenità di un gioco rassicurante anche quando il suo effetto non dovesse rendere conto al risultato. “Bisognerà festeggiare dopo ogni vittoria” non è una dichiarazione consolatoria, ma il manifesto di un intento molto più profondo.