Pure ad Abbey Road avranno fatto silenzio quando l’Inghilterra ha detto agli inglesi di essere arrivata in finale del campionato europeo. La prima volta. Più di un secolo di storia senza l’occasione di salire sul tetto del continente. Uno smacco per gli inventori del calcio. Un’accademia lunga una storia lunghissima e brevissima che in centocinquant’anni s’è vista sempre superare dai suoi allievi.
E non poteva esserci che l’Italia ad aspettare i tre leoni. Una rivalità antica e sempre a favore dello Stivale pendente sopra il Mediterraneo. Regni e supremazie britanniche hanno sempre potuto sbandierare primati e poteri irraggiungibili, ma sul rettangolo di gioco il palmares italiano dice di una gloria ancora lontana per le mire mai realizzate di sua maestà la regina. Albione ha ormeggiato le sue flotte e adesso deve fare i conti con la grande storia prima di poter dire di essere davvero la migliore.
Italia-Inghilterra ha un suono che è il preambolo dell’atto del gioco del calcio. I cardini del Vecchio continente cigolano soltanto queste due parole. Sue queste due squadre-nazioni intervengono la letteratura, il cinema, la politica, il sentimento popolare, la storia della guerra, le diplomazie e un volume di relazioni iniziato da quando è nato il calcio. Anzi, molti di questi segni sedimentavano e pulsavano già nelle epoche addietro.
Stavolta, in un europeo non del tutto spettacolare, a fare da specchio delle meraviglie sono proprio gli inglesi. Se l’Italia si è ricostruita su entusiasmi rinnovati, la squadra di Gareth Southgate forse per la prima volta nella sua storia è riuscita ad assorbire lo statuto estetico e quello pragmatico di questa disciplina. Kane e compagni giocano bene e ci mettono sostanza. Non sfuggono alla bellezza e non dimenticano il risultato. Fino a questo momento, ci sono riusciti. Subendo poco, soffrendo e ricomponendosi ogni volta, e, soprattutto, giocando il calcio che in Inghilterra avevano sempre sognato.
Harry Maguire ha la faccia dei fondatori, di quelli che con spavalderia si facevano fotografare a fine Ottocento sapendo che un giorno il mondo li avrebbe esposto nel museo della memoria e delle origini. Il centrale dello United guida una difesa dove il “giamaicano” Walker corre cento staffette a partita. Kalvin Phillips, l’altro giamaicano, mezzo irlandese, ottimizza con intelligenza una mediana in cui il centrocampista del Leeds recita la parte di quel calcio cinico e freddo tipico dell’epoca migliore del suo club di provenienza. Jordan Henderson, capitano del Liverpool delle meraviglie, è la colonna portante dentro e fuori del campo. Davanti, Harry Kane, Sterling e Saka si muovono come poche volte erano riusciti a fare altri prima di loro.
L’Inghilterra ha un organico che proviene dal campionato più ricco del mondo e, in questo momento, il più vincente, considerando i risultati delle squadre di club nelle competizioni continentali. Basta a presentare una ragione che fa sì di rendere poco sorprendente il cammino di Southgate.
La duttilità tattica di molti uomini, fino alla mobilità a tutto campo che rende imprevedibili Kane e Sterling, per citarne qualcuno, non sono un’invenzione del momento, ma una costruzione progressiva di una filosofia di gioco che cerca di riassumere tutti gli aspetti efficaci del gioco del calcio. La finale di Wembley è l’opportunità, per gli inglesi, di suggellare un’aspirazione lunga una storia. Predicata, pretesa, arrogata, ma mai realmente concretizzata. Dall’altra parte, però, c’è l’Italia. E il calcio europeo sa bene quanti incubi la nazionale azzurra ha saputo rappresentare per tante pretendenti a titoli e trofei. Soprattutto nei momenti in cui queste si sentivano più forti. Break a leg!