Dal 5 al 21 agosto 2016 Rio de Janeiro ospiterà la trentunesima edizione dei Giochi Olimpici Estivi. Un “prologo” della manifestazione è previsto per il 3 e il 4 di agosto, con le prime gare del torneo calcistico. Il Brasile, però, già alle prese con una grave crisi politica, si trova a dover fronteggiare una situazione molto delicata dal punto di vista dell’ordine pubblico. Rio è una città ostaggio della criminalità e di un forte disagio politico. Guerre tra bande criminali stanno condizionando la vita di interi quartieri e la polizia è responsabile, secondo una violenza istituzionale denunciata da Amnesty International, di oltre 2500 omicidi solo a Rio de Janeiro.
Secondo le denunce di fonti autorevoli, in Brasile le Olimpiadi sono un ottimo strumento di distrazione propagandistica utile ai media che, già da molto tempo, hanno calato un velo di silenzio sopra le gravi violazioni ai danni delle comunità indio, in nome di grandi interessi economici, su cui le autorità brasiliane non sono esenti da responsabilità, dirette e indirette. Violenza, insicurezza, rischio di contagi e inquinamento mettono a serio rischio il bilancio di un’edizione delle Olimpiadi che sembra aver messo in ginocchio uno tra i luoghi storici e significativi dell’immaginario carioca. La favela.
Ne parliamo con Luigi Spera, giornalista reporter freelance. Dal 2012 si dedica al reportage e al racconto dei conflitti. Ha realizzato i suoi servizi tra Afghanistan, Medio Oriente, Bosnia, Kosovo e Brasile. Sin dal 2010 rivolge grande attenzione alla storia, alla politica e alla società brasiliana. Ha concentrato i suoi studi sul fenomeno delle favelas, del crimine organizzato e delle politiche di pubblica sicurezza, soprattutto nella città di Rio de Janeiro. Durante uno dei soggiorni a Rio, nel 2014, ha coperto per l’intero periodo gli eventi legati al Mondiale di calcio Fifa Brasil2014, realizzando numerose inchieste e reportage pubblicati per le maggiori riviste e giornali italiani.
Iniziamo dall’elemento fondamentale dell’argomento. La favela. Un luogo che nell’immaginario collettivo è considerato povero e disperato. In realtà, può essere considerato un luogo che raccoglie molti luoghi?
Dire favela, pur identificando un ‘modello’ applicabile a tutte le realtà, può voler dire nulla. Ogni favela è diversa dall’altra. Anche le caratteristiche geografiche e la posizione ne delineano gli aspetti. Nella favela esiste una gerarchia economica, come se anche all’interno di essa vi avvenisse uno sviluppo in cui si distinguono classi e posizioni sociali. La favela in Brasile, mi riferisco a Rio, presenta un lungo percorso fatto di evoluzioni e di cambiamenti, determinati pure da interventi legislativi specifici. La favela è un luogo di grande dinamismo culturale, di attivismo, di resistenza. Dalla favela oggi escono ragazzi tanti che vanno all’università, che si costruiscono opportunità di realizzazione nella cosiddetta società ufficiale.
La favela è come una città nella città.
È di certo un nucleo complesso. La favela è un concetto complesso. Negli anni ’50 e ’60, in alcune favelas di Rio de Janeiro sono nati movimenti operai che si sono consolidati come punti di riferimento politico. La favela va destrutturata per poter essere compresa. Un punto che spesso viene trascurato è una differenza che corre tra il favelado (l’abitante della favela) e il cittadino che non vive in favela. Quest’ultimo non considera la favela come città, come luogo essenzialmente parte dell’impianto metropolitano, ma il favelado, al contrario, vede l’altro come città, condividendone obiettivi e prospettive, aspirando alla partecipazione alla vita cittadina, incontrando, però, resistenze e diffidenze. La favela è un luogo nato quando la città non poteva ospitare tutti i suoi abitanti. Nonostante il suo sviluppo si sia concentrato su quello che viene perseguito da parti “diversamente riconosciute” delle città, ha sempre rappresentato un elemento da dover rimuovere, fino a quando non ci si è resi conto che le favelas erano diventate un bacino utile al potere economico e politico. La tentazione, però, è sempre rimasta viva, e le Olimpiadi sono l’occasione per dare sfogo a questa tentazione.
Rispetto alle violazioni che si stanno verificando intorno alla fase di preparazione della manifestazione olimpica, da quello che sta trapelando da alcune dichiarazioni, si avvertono un disagio e un imbarazzo anche dalla classe politica brasiliana. Eppure tutto questo viene autorizzato. Da dove proviene questa imposizione?
Prima di tutto, c’è un grande inganno di fondo. Mondiali e Olimpiadi sono stati “venduti” come viatico di sviluppo, come un’opportunità imperdibile per l’economia brasiliana. In realtà, aspetto rilevante, i soldi non sono arrivati dall’estero. Gli investimenti per realizzare le strutture sono arrivati dal Paese dentro il Paese, attraverso un’ingannevole spinta propagandistica secondo la quale il Brasile avrebbe dovuto assistere a chissà quale invasione turistica. Parliamo, però, di eventi che in prevalenza muovono solo chi ha risorse per poterseli permettere. I benefici annunciati alla vigilia dei lavori non sono arrivati e i brasiliani hanno capito che molto del danaro pubblico era stato distratto verso le Olimpiadi, a discapito di comparti molto più importanti. Questo ha creato un effetto domino scontato dai cittadini stessi, attraverso aumenti sui costi di beni e servizi. Appena si sono verificati i primi focolai di protesta, la politica ha provveduto a imbavagliare la contestazione, anche con una serie di provvedimenti legislativi. Dopo il 2013 questi provvedimenti sono stati rinvigoriti, anche in occasione delle olimpiadi, facendo leva sulla minaccia terroristica. Tutto questo è servito pure alla politica. Soprattutto, questa è una cosa che tengo a sostenere spesso, le Olimpiadi hanno portato vantaggi a chi se n’è avvantaggiato già prima, e questi vantaggi non sono stati di certo riservati ai cittadini.
I disordini registrati durante questo periodo avvengono per mano della criminalità brasiliana, anche da parte dei trafficanti. Qual è il nesso rispetto alle Olimpiadi?
Nello specifico non esiste un collegamento d’interessi rispetto a ragioni economiche. I trafficanti badano al controllo di altri mercati, in particolare quello della droga, da gestire con il controllo militare del territorio dove sono, di fatto, l’unica legge. Il denaro lo investono lì e nelle armi, talvolta in spese futili, a differenza delle ‘menti’ imprenditoriali mafiose alle quali siamo abituati noi. Il coinvolgimento in questo caso avviene per una ragione più particolare. Il problema è il rapporto trafficanti polizia, caratterizzato da meccanismi estremamente complicati. Secondo fonti riconosciute, anche dalle stesse autorità brasiliane, gran parte della polizia è corrotta. È sufficiente considerare che in Brasile la stessa attività inquirente è molto debole. Il 5-8% è la forbice statistica dei fatti di sangue che finiscono sotto investigazione, e, in generale, le indagini come le intendiamo noi, vale a dire contro i clan e le organizzazioni criminali, con prove certe e verifiche oggettive, a Rio non esistono.
Il legame tra polizia e trafficanti deve quindi portare a un risultato?
I poliziotti corrotti lucrano non poco dalla corruzione coi trafficanti, per cui è chiaro che non hanno interesse a eliminare la galline dalle uova d’oro. Inoltre, un’inchiesta parlamentare, al di là della ‘versione’ secondo cui le armi arrivano dall’estero, ha provato che l’80% delle armi sequestrate ai trafficanti sono prodotte da aziende brasiliane e vengono destinate alle forze armate e di polizia. Buona parte di queste armi sparisce già durante il tragitto dalla fabbrica al battaglione. Il nodo strettamente legato alla questione Olimpiadi è individuato dal fatto che il programma di pacificazione delle favelas, le celebri UPP, Unidade de Policia Pacificadora (Unità di Polizia di Pacificazione), che avrebbe dovuto consentire allo Stato il pieno controllo dell’ordine pubblico nelle favelas, in realtà è fallito. E in molte favelas la situazione è peggiore rispetto a prima che questo piano venisse applicato.
A questo proposito, potrebbe essere utile soffermarci su questa parola, “Pacificazione”. Un termine che nasconde una certa ambiguità.
Sì, è una parola senz’altro ambigua. Il soldato della polizia militare viene da sempre addestrato alla guerra. Ne deriva una psicologia strategica per cui l’intero territorio viene identificato come territorio nemico da conquistare o da superare militarmente. Quindi, è inevitabile che l’azione delle UPP si trasformi in un’occupazione militare della favela. È chiaro che tutto resta allo stato di azioni militari, senza che queste siano accompagnate da investimenti e servizi pubblici (come pure era stato promesso all’inizio del piano, anche per dimostrare che non fosse solo un piano ‘olimpico’). Diversamente, arrivano quelli privati, utili alla speculazione di pochi. Ecco che la pacificazione diventa sgombero fisico, per poi predisporre il territorio alla speculazione economica e all’interno della città.
Tutto in nome delle Olimpiadi?
Molto più di quanto si possa immaginare. Quando sono iniziati i lavori di preparazione, molti brasiliani hanno creduto ai proclami politici. E l’intento era proprio quello di migliorare la percezione. Si doveva lavorare soprattutto su quella, l’immagine. Persino i narcotrafficanti, inizialmente, hanno creduto che la polizia sarebbe arrivata in favela per portare un ordine nuovo. Infatti, molti dei trafficanti sono andati via, fin quando la “pacificazione”, priva di strutture e di servizi, si è rivelata un bluff. Allora, sono tornati pure i conflitti.
Eppure, la favela ha diritto alla sua dignità.
C’è una cosa che molto spesso sfugge e che va detta. Sono dati accertati e non poco sorprendenti, rispetto a molti luoghi comuni sulla favela. Il 99% dei residenti è composto da persone oneste. Solo l’1% è legato ai narcotrafficanti. E non esiste una zona grigia. O sei uno di loro, o sei con loro, o sei fuori da quel giro. I favelados, che non devono essere immaginati come persone che “arrangiano”, sono cittadini che lavorano, che vivono onestamente, vittime di una condizione alla quale non contribuiscono. Essere un favelado è una sfida. Significa dover vivere uno status ulteriore, difficile da comprendere se nella favela non ci sei nato e cresciuto. Essere un favelado significa rischiare costantemente il fuoco incrociato di polizia e trafficanti.
Gli osservatori più esperti stanno denunciando anche gravi violazioni ai danni delle minoranze indio. Quanto è grave la situazione?
Molto grave. Oltre agli indios io mi soffermerei sulle ‘minoranze’ in generale. Il criterio parte da lontano, da quell’antico processo denominato “branqueamento”, a chiaro sfondo razzista, che voleva una società brasiliana completamente bianca. In quest’ottica, purtroppo, resiste una visione razzista che vorrebbe una limitazione dei diritti per le minoranze. Gli indios sono una ‘minoranza’. Ma tutte insieme le minoranze sono maggioranza. In Brasile neri e indios formano una popolazione che non è in minoranza rispetto ai bianchi. Nelle università, grazie ad alcuni piani specifici dei governi Lula e Dilma, per esempio, il numero di studenti “di colore” è notevolmente aumentato. Una parte consistente della società, quella bianca, quella di elite, non vuole questo progresso. Il Brasile vive da sempre questo conflitto interno a sfondo razziale.
Le Olimpiadi cosa stanno significando alla luce di queste situazioni?
La questione è sulla gestione dell’eccedenza, su come gestirla. A Rio de Janeiro la tentazione di eliminare, non di risolvere, la povertà è molto antica, e spesso ha avuto successo, visti anche i risultati di oggi e la ghettizzazione di un terzo della popolazione di Rio. I poveri vanno emarginati, respinti, se non possono essere sfruttati. Eppure, la favela nel corso degli anni ha resistito (e resiste) ai dittatori, ai trafficanti, agli agenti infiltrati della CIA, agli interessi della Chiesa e a un volume di violazioni inimmaginabile. A cosa adesso sta invece cedendo la favela? Alle Olimpiadi degli sponsor e ai partner economici che, talvolta, hanno finanziato la UPP, l’organismo di polizia che ha realizzato la “pacificazione” e che ha fatto da leva alla brutale speculazione economica di sui sono vittime i favelados più poveri.
Le Olimpiadi nascono nella città per vivere la città. Non c'è nulla di più contrario alle Olimpiadi che compiere violazioni alla città. Di fatto, è come farlo contro l'Olimpiade stessa. A Rio, come altrove, a pagarne le conseguenze sono molti cittadini, soprattutto di quella parte della città destinata a fare da bersaglio.
(Le immagini interne al testo dell'intervista sono tratte dagli scatti del fotoreporter Marco Negri)