A chi compie l’ultima curva

 

'Stavo correndo a trecento all’ora. Stavo correndo col mio corpo dentro un altro corpo. Stavo correndo con la mia umanità dentro una macchina che quelli come me sentono umana quanto la dedizione che ci mettono dentro. Stavo correndo a trecento all’ora mentre ero primo. Prima di me ne sono morti tanti. E di ognuno dicevano che avrebbe dovuto essere l’ultimo. Stavo correndo a trecento all’ora e ho pensato di fermarmi. Stavo correndo a trecento all’ora e ho accostato, sono sceso dalla macchina e sono andato via. Dove? Dove mi avrebbero voluto tutti più bene.'

Uno come lui non poteva morire. In mezzo a un giro della morte in cui per decenni sono finiti tanti piloti, uno come lui non poteva morire. Talmente grande la sua misura da risultare immortale alla percezione di chi ne avvertiva la sua presenza di natura quasi costituzionale. La Formula Uno è Ayrton Senna. Non se ne potrà mai fare a meno. La sua grandezza è una dimensione, un’unità di misura. Non si può correre senza di lui. 

Fino all’ultima curva all’inseguimento disperato e rabbioso dell’unica posizione che Senna riconosceva, il pensiero collettivo era quello di un Achille seduto su una monoposto e venuto al mondo per vincere e dare spettacolo. Fino al colpo letale al tallone che segretamente la contemplazione del mito aveva tenuto nascosto pure a se stesso.
Ma il tempo ha voluto che anche la morte sarebbe diventata una cosa utile a capire quale grandezza aveva fatto irruzione dentro un immaginario indisposto ad ammettere quel qualcosa vulnerabile tanto quanto lo erano state le vittime di un’epica che non è soltanto la competizione sportiva, ma uno stato spirituale talvolta difficile da comprendere. 

Senna non avrebbe voluto. Nessuno avrebbe voluto. Se fosse stato possibile, la sua macchina non si sarebbe fermata di colpo, ma avrebbe rallentato, adagiandosi sulla ghiaia senza nemmeno fare rumore. Dolcemente, nella resa di un errore, di un guasto o di qualunque altro intervento del destino. Invece no. Trent’anni fa fu necessario uno tra i lutti più dolorosi della storia dello sport per riconsegnare ancora una volta la mitologia della morte come epilogo estremo alla felicità della vita. 

La morte di Ayrton Senna è stata necessaria. Non perché fosse soltanto necessario rivedere le condizioni di sicurezza dei piloti, delle macchine e delle piste. Non perché fosse necessario ripensare a una disciplina così complessa e così delicata. Non perché fosse necessario rivisitare al rallentatore lo sport più veloce di tutti. Non perché ci fosse da rendere necessario qualcosa.

Ayrton Senna è morto per ricordare all’uomo di essere uomo. Che la sua mortalità non è l’avvisaglia retorica per cui comportarsi bene o redimersi in nome di chissà quali morali, ma che l’esistenza, pure quella condotta oltre ogni limite, nella maniera più impavida e coraggiosa, guarda alla morte tanto quanto questa fa con la vita. E Ayrton Senna non è stato solo il più grande pilota di tutti i tempi. Ayrton Senna è stato l’uomo che ha guidato con la ragione in un guanto e l’istinto in un altro. La sua corsa è stata bandiera, egoismo, felicità. È stata un sorvolo sopra l’invidia degli dèi.

“Niente potrà tenermi lontano dall’amore di Dio”

E a completamento di un così arduo intendimento della vita non è intervenuta la loro invidia, ma un compimento completo e assoluto, in cui pure la morte ha assunto un ruolo necessario. Tutti avremmo voluto continuare a vederlo. Tutti avremmo voluto continuare ad ascoltarlo. Tutti avremmo voluto continuare a considerarlo immune alla possibilità di morire in quel modo. Qualcosa continua a correre. E non si fermerà. Anche dopo tutti noi.