Si dirà, giustamente, che Sven-Göran Eriksson era un signore, che era un uomo elegante, diversamente estraneo a un certo tipo di calcio, nella sua serietà pragmatica, senza alzare la voce, fino a uno sfinimento dei sentimenti procuratogli da un malattia che gli ha annunciato la fine con tanto di avvisaglie e di tempi, in quella tragedia dell’inguaribilità che colpisce tante persone e che porta con sé una tra le inquietudini per eccellenza.
E lui, anche in quel momento, anche nell’ultima esperienza, quella più dura di tutte, non ha battuto ciglio nella sua raffinatissima espressione piena di sensibilità.
Si dirà questo, e molto altro, nella pienezza di un merito umano incontestabile, sì, ma non bisognerà dimenticare nemmeno che è andato via un grande allenatore. Uno che ha soddisfatto l’ovunque la sua carriera lo abbia condotto. Che ha vinto dove non erano abituati così spesso a farlo.
Dalla Coppa UEFA col Goteborg, passando per Roma sponda giallorossa, Firenze, Genova, fino ai trofei conquistati con una Lazio che non è ancora riuscita a pareggiare quei fasti vissuti grazie a grandi giocatori, ma anche, forse soprattutto, grazie alla perizia sorridente di Eriksson.
Gli ultimi anni della sua lunga carriera hanno scandito la sua fase destinata a sbiadire, ma solo perché i segni delle idee prima o poi devono fare i conti coi tempi che ne esigono altre. E per certi personaggi del calcio non ci sono sempre grandi club e grandi possibilità economiche ad aspettarli.
Del resto Eriksson era abituato ad avere a che fare con le grandi speranze. Spesso non deluse. Chiedere agli appassionati che oggi li rivorrebbero ancora, quei tempi trascorsi sotto il suo sguardo. E non era “un altro calcio”. Era il calcio, perché Sven-Göran Eriksson è stato protagonista di un’epoca lunghissima, che ha istruito tutto quello che è venuto dopo. Come ha saputo fare lui.