Il Napoli di inizio stagione non lasciava immaginare che presto si sarebbe rivelato il dimagrimento di un corpo a lungo poderoso e sorprendente. Al di là di alcune imperfezioni e all’ombra di qualche successo di troppo sfuggito per ragioni dentro e fuori dal suo ambiente. Mancano molti calciatori, da troppo tempo, e quelli che restano disponibili un po’ stringono i denti e un po’ non conoscono il calcio a Napoli. Alcuni non lo conoscono perché si limitano a prendere parte al videogame collettivo di questo calcio sotto dittatura pandemica. Monotono e fine a stesso.
Se è vero tutto questo, è anche vero che a Napoli non ci sono più gli Hamsik, Lavezzi, Cavani, Higuain, Albiol, Callejon, Jorginho, Allan, il miglior Ghoulam, ormai un nome in organico e nulla più, il miglior Koulibaly, rimasto all’eliminazione in Champions nella prima stagione di Ancelotti, perché il Koulibaly che aveva meravigliato il calcio europeo, da Liverpool non è più tornato. E non c’è più Mertens, del quale non si hanno più notizie, costretto a un recupero malinconico e riparato in patria. Di Lorenzo tira il carro da solo e da troppo tempo. Niente a che vedere col calciatore brillante visto nella prima parte della gestione Ancelotti. Insigne, intanto, tra un sorriso e una smorfia, è quel che resta di una squadra che avrebbe fatto meglio a non essere più tale. Ma da molto tempo, da prima che ammutinamento e covid deprimessero aspettative ed entusiasmi.
Zielinski è il calciatore spreco per eccellenza. Se in questi anni fosse riuscito a dare continuità mentale alle sue qualità tecniche, il Napoli avrebbe fatto molta fatica a trattenerlo. E si potrebbe procedere a lungo soffermandosi su debolezze ed evidenti fragilità di calciatori che non si capisce se siano troppo scontenti o troppo contenti. Ed è meglio sorvolare su altri che sono costati tanti soldi, in più reparti, che non si capirà mai perché non siano stati investiti su giocatori che avrebbero potuto offrire ben altre garanzie.
Quest’anno le difficoltà oggettive hanno messo in pessima luce quelle soggettive. Di tutti. Perché nelle crepe di una gestione societaria ora sparagnina e in altri momenti capace di sborsare cifre enormi ci si è infilata una gestione tecnica che ormai non parla nessuna lingua, se non quella di uno sfoggio amaro e disilluso di paradossi e ostinazioni. Dal cambio di mezza difesa prima di un calcio d’angolo, a risultato ancora aperto, alla testardaggine, ancora una volta pagata con un goal, di palleggiare come non si è in grado di fare. Del resto, qui dentro fu a suo tempo scritto che il sarrismo si sarebbe rivelato una maledizione per i Napoli successivi.
Tuttavia, non possono essere addebitati all’allenatore dei passaggi semplici sbagliati, stop maldestri e tutta una lunga serie di involuzioni inquietanti. Senza contare che questa squadra sembra non riuscire nemmeno più a stare in piedi. Mai in oltre dieci anni si era visto un Napoli in costante affanno atletico e in così desolante passività agonistica e caratteriale. E menomale che questo gruppo s’è dichiarato vicino al suo allenatore. Almeno, così è stato detto.
La società resta muta, adesso pure con tanto di silenzio stampa. Non era necessario, perché questa società non parla da tanto, troppo tempo. Resta in silenzio pure quando cerca di parlare. E anche questo, rispetto all’apatia del suo patron, è stato detto a più riprese.
Questo Napoli è un gioco di specchi. Niente dice qualcosa, nessuno esprime qualcosa. Si percepisce una sfacciataggine inversa, una faccia tosta che ha il volto della timidezza, un’arroganza che abbozza la posa dell’introversione. In campo e fuori. L’inespressività è la cosa peggiore per chi ha il compito di fornire emozioni. Perché si dà il caso che in questo intrattenimento generale, che non si sa ancora quanto sia destinato a durare, chi di dovere ha un solo dovere, che è quello di sempre. Rispettare l’emozione. Ma questo nei contratti non è scritto.