È successo tutto all’alba di un mondo che stava per cambiare. Per sempre. A Italia 90 non si sarebbe soltanto svolto un campionato del mondo, ma sarebbe andata in onda la riforma dei linguaggi. Il momento centrale di una rivoluzione candida e velenosa. Dentro un’umanità di nostalgie pronte a passare alla storia come tali già dopo cinque minuti.

Pochi vi avrebbero resistito, pochi vi sarebbero nati. Nella Coppa del Mondo proclamata per dare inizio alla metamorfosi del pallone, che avrebbe indegnamente umiliato il più grande di tutti, fino a una perpetrazione culminata nella mano di un’infermiera quattro anni dopo, gli occhi di un ragazzo meridionale avrebbero vinto il trofeo più importante. Quello di chi rende felici le persone. Lontano dalla vergogna del fischiume contro il più grande di sempre. Salvatore Schillaci a Italia 90 fu l’ultimo Maradona. 

Una contemporaneità di spirito e un unisono di genuinità si sarebbero incontrati al bivio della sconfitta senza sapere che un giorno l’avrebbero superata entrambi. Come per i più grandi, col tempo. Con la pazienza e la resistenza postuma al fallimento di quella trasformazione che li aveva visti apparentemente soccombere.

Totò Schillaci è stata l’irregolarità di un dizionario bugiardo e impettito di un sistema costruito per dividere in due la storia del calcio. Schillaci nemmeno avrebbe immaginato di diventare il simbolo sincero di qualcosa che avrebbe archiviato la fatica per lasciare posto al rincordo di una bella canzone e, prodigio e potenza delle cose vere, al volto degli sconfitti. Perché di quel mondiale saranno sempre e soltanto ricordate le facce stremate e vivissime di chi ancora e per sempre sarebbe stato protagonista di quella felicità.

Schillaci pensava solo a quello. Probabilmente per tutta la vita non ha fatto altro. Quel campionato del mondo gli è sfuggito sotto i colpi dei calci di rigore, nella città del sud che aveva dovuto emblematicamente fare da scenario tormentato alla sfida più bella e inquieta di quell’edizione. E, a conti fatti, il rigore decisivo lo aveva calciato l’altra faccia della persecuzione. Sul podio tiepidamente festoso della finale per il terzo posto Schillaci fu quello che si distinse perché quella sera, nonostante la vittoria sugli inglesi, non aveva nessuna voglia di festeggiare.

Gli uomini che mettono il pensiero alle cose, se le vedono sfuggire nella maniera più beffarda possibile, dimettono in un istante quel carico emotivo da cui avevano tratto forza ed entusiasmo. E non è una forma di debolezza. È la consegna dignitosa alla vita che in qualche modo ha voluto così. 

Tuttavia quello che hanno dato non si arrende. Pure quando non si vede più. Perché forse è vero che la cosa più bella che possa fare un essere umano sia quella di regalare un po’ di felicità. Chi lo fa corre molti rischi. Senza saperlo sfida qualcosa che si paga. Totò Schillaci è stato tra gli ultimi calciatori ad avere qualcosa a che fare con questa struggente relazione. “Notti magiche”.