Quando nel 2004 il Napoli conobbe la parola fallimento, il volto di De Laurentiis fu quello nuovo di un Napoli che sin dal principio si annunciò intenzionato a chiudere con un passato che proprio per il patron azzurro avrebbe a lungo rappresentato un doppio peso. Quello dei successi non così lontani, tredici anni prima i partenopei si erano cuciti sulla maglia il secondo scudetto, e quello di un epilogo che in pochi anni aveva dato un amarissimo colpo di spugna a decenni di avvicinamento a quel settennato in cui Maradona sarebbe stato il simbolo poi destinato a gloria e memoria imperiture.

Aurelio De Laurentiis nel 2004 si trovò a dover affrontare l’entusiasmo per il suo arrivo e il compito di riportare il Napoli ai fasti che non sempre avevano caratterizzato la sua storia, ma che gli anni d’oro, troppo recenti per essere dimenticati, erano stati una pedagogia felice e potente a tal punto da mutare la percezione di un popolo nei confronti della passione sportiva. Non soltanto più l’appartenenza e l’identità, ma pure la restituzione della possibilità di aspirare al successo. La grandezza dell’avvento del Pibe de Oro e la costruzione di una grande squadra avevano riformato l’osservatorio napoletano.

Non sarebbe più bastato esserci, non sarebbe stato più sufficiente tornare a godere di una squadra in serie A. C’era da rivivere gli elementi del sogno. Il tempo avrebbe dovuto scandire il concreto avvicinamento al grande calcio e alla possibilità di affermarsi al suo interno tanto quanto i club più prestigiosi.

La primavera napoletana iniziata nella seconda metà degli anni ’80 era stata troppo folgorante e traumatica per poter tornare indietro. Accontentarsi non sarebbe stato più possibile. Una nuova dimensione aveva rappresentato l’ingresso a una nuova e più esigente “civiltà” calcistica. Non perché il Napoli e Napoli non avessero avuto nei decenni addietro altrettante possibilità, ma perché la realizzazione del sogno aveva irrimediabilmente ricostituito lo sguardo e il sentimento di intere generazioni. Il processo non aveva escluso risvolti viziati, ma ormai quella dimensione era diventata congenita, fisiologica. 

De Laurentiis ha dovuto fronteggiare questa esigenza. Talvolta inadeguatamente, talvolta senza riuscirne a sopportarne appieno il peso. Fino a dei momenti in cui il presidente del Napoli è sembrato addirittura dentro la volontà, o la necessità, di respingerla, in opposizione alla sua normativa gestionale fondata su un razionalismo freddo e distaccato, senza spinte passionali che potessero far barcollare un club che non poteva più permettersi di farlo. 

Oggi la nuova maglia del Napoli non porta soltanto la novità di uno scudetto atteso da molto tempo prima dell’arrivo dell’attuale dirigenza, ma restituisce la ricostruzione di una dignità che al tramonto di un’era irripetibile sembrava ormai perduta. L’inquietudine di un’irrimediabilità aveva scoraggiato anche le sponde più ottimistiche di una città e di una tifoseria.

Adesso la realtà non è più scollata dall’aspettativa e la sproporzione non domina più le attese di qualcosa che non va più sotto il nome di semplice speranza. Mentre resta in agguato il momento ancora più difficile e impegnativo. Quello di una conferma che disattesa o meno non turberà di certo quanto realizzato, ma che avrebbe il potere ulteriore di consolidare qualcosa che ha richiesto molto tempo in una dimensione che di tempo non ne concede molto. Dal ritorno in A, dal ritorno in Europa, dal ritorno dello scudetto, il merito di De Laurentiis è stato prima di tutto quello di aver saputo muoversi nel tempo e col tempo.